Semplificazione delle regole fiscali, rilancio degli investimenti e sblocco delle aliquote delle imposte locali: sono le misure principali della legge di bilancio per regioni ed enti locali. Il rischio è che restino solo provvedimenti sulla carta.
I principali interventi
Il disegno di legge di bilancio modifica alcuni aspetti importanti che interessano regioni e altri enti locali. Gli interventi più rilevanti riguardano sicuramente l’ulteriore semplificazione delle regole fiscali, dopo l’eliminazione del patto di stabilità nel 2016, il rilancio degli investimenti e lo sblocco della possibilità di variare le aliquote delle imposte locali. Dal punto di vista mediatico, tuttavia, l’attenzione si è soffermata in particolare sul taglio dei trasferimenti agli enti locali qualora questi non riducano, a loro volta, i vitalizi. Se quest’ultimo punto comporta – eventuali – risparmi molto modesti, gli altri sono interventi con forti potenzialità, ma che rischiano di restare solo sulla carta. Cerchiamo di capire il perché, anche con l’aiuto delle audizioni della Corte dei conti, dell’Istat e dell’Ufficio parlamentare di bilancio.
Per quanto riguarda la semplificazione delle regole fiscali (articolo 60), fondamentale è stato probabilmente il ruolo di una serie di sentenze della Consulta (la 247/2017 e la 101/2018) sulla piena disponibilità per gli enti locali sia degli avanzi di amministrazione sia delle risorse presenti nel fondo pluriennale vincolato. Di qui, la ridefinizione della regola del pareggio di bilancio esclusivamente in termini di saldo di bilancio di competenza, che deve essere non negativo (la norma si applica a tutti gli enti dal 2019, salvo le regioni a statuto ordinario per cui la regola parte dal 2020). Si tratta di una misura che – nella speranza che i fondi liberati siano effettivamente utilizzati – comporta nuovi oneri, stimati per 400 milioni di euro nel 2020, 700 milioni nel 2012 e poi in crescita negli anni successivi (oltre 11 miliardi cumulati nei primi 10 anni e 1,5 miliardi annui dal 2028 in poi).
Per quanto riguarda il rilancio degli investimenti (articoli 61 e 70), invece, nell’intenzione del legislatore ciò avverrà attraverso la riduzione del contributo delle regioni a statuto ordinario alla finanza pubblica (750 milioni di euro nel 2019) e con l’assegnazione di fondi per gli investimenti – che possono essere diretti o indiretti – pari 2,5 miliardi di euro nel 2020 e a 1,7 miliardi nel 2021.
Nello stesso tempo, non è prorogato il blocco all’uso della leva fiscale, vale a dire della possibilità di aumentare le aliquote delle imposte locali, che era in vigore dal 2016.
Le potenzialità di queste misure sono evidenti, anche se non mancano le criticità. La prima è dovuta al fatto che lo svincolo degli avanzi di amministrazione potrebbe tradursi non solo – o non tanto – in aumento degli investimenti, bensì in mero incremento della spesa corrente, probabilmente un effetto perverso delle previsioni governative. Inoltre, liberare la leva fiscale (questa misura sì invece direttamente collegata alla possibilità degli enti di personalizzare la propria spesa corrente) potrebbe tradursi in aumento eccessivo dello sforzo fiscale per quegli enti con pochi o nulli avanzi di amministrazione disponibili ma desiderosi comunque, anche solo per motivi elettorali, di poter ricominciare a espandere la propria dimensione.
Le misure simboliche
Più modesta appare la portata di altre misure, che pure hanno trovato una certa attenzione mediatica. Da un lato, la “piena attuazione dei principi in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario”, così come stabiliti dal Dlgs 68/2011, vale a dire il decreto attuativo della legge delega 42/2009 sull’applicazione dell’articolo 119 della Costituzione (articolo 72). È una previsione che non comporta spesa o oneri per lo stato e che rimanda le proposte operative al lavoro di un apposito tavolo tecnico. Probabilmente è una buona idea, per dare continuità e omogeneità a un quadro ancora frammentario e incompleto nella finanza regionale. Ma certamente sarebbe stata realizzabile anche senza un articolo dedicato nella legge di bilancio.
Dall’altro lato, c’è l’incentivo alla riduzione dei costi della politica nelle regioni a statuto speciale e ordinario e nelle province autonome: l’articolo 75 prevede che una quota pari all’80 per cento dei trasferimenti erariali disposti a loro favore – al netto tuttavia di quelli destinati alla sanità, alle politiche sociali al trasporto pubblico (di fatto, ben oltre il 90 per cento del bilancio regionale) – sia vincolata alla ridefinizione dei trattamenti previdenziali e dei vitalizi del personale politico degli enti. I risparmi attesi dall’operazione non vengono nemmeno quantificati dalla relazione tecnica, tanta è l’importanza reale attribuita al provvedimento o alla speranza che venga attuato.
Paolo Balduzzi
16.11.18
www.lavoce.info
lunedì 31 dicembre 2018
lunedì 24 dicembre 2018
Come risolvere il dilemma dei compiti a casa
Compiti a casa sì o no? Secondo gli studi e le indagini internazionali hanno vantaggi e svantaggi. Ma le soluzioni alternative ci sono e spetta ai responsabili delle politiche educative decidere. Certo non è un tema da affrontare con una circolare.
Le ragioni degli insegnanti
Con le vacanze di Natale torna la polemica sui compiti a casa. Vissuti solitamente come una iattura dagli studenti e come motivo di stress dai genitori, a volte catturano anche l’attenzione dei responsabili delle politiche educative. L’ultimo è il ministro Bussetti che ha annunciato una circolare in merito, ma prima di lui già il ministro Profumo si era detto contrario a eccessivi carichi di lavoro a casa per gli studenti. I docenti, però, continuano in larga parte a fare affidamento sui compiti a casa, confidando che gli studenti svolgano una quota di studio in autonomia.
Una delle ragioni è che, nella ricerca del metodo di studio per sé più congeniale, ogni studente deve imparare ad alternare il lavoro condiviso svolto in classe con momenti di apprendimento autonomo. I compiti a casa favoriscono questa seconda pratica. Da tempo, la ricerca ha poi messo in evidenza come le interruzioni (più o meno lunghe) delle attività scolastiche comportino un decadimento dei livelli di apprendimento (learning decay/skills deterioration). Alcuni studi quantificano quello dopo le vacanze estive in media nell’equivalente di un mese di scuola. L’arretramento non colpisce allo stesso modo tutti gli studenti e ogni tipo di competenza: cresce al crescere del grado scolastico (perché nozioni, saperi e metodi diventano via via più complessi); è più accentuato in matematica; colpisce maggiormente chi ha profili di competenza più fragili (perché è più facile preservare il proprio livello di competenza quando è già elevato) e chi ha un retroterra familiare meno avvantaggiato (perché solitamente meno esposto a stimoli educativi in ambiente domestico).
È anche per scongiurare questi rischi che i docenti fanno ricorso ai compiti a casa.
Ma i compiti a casa fanno davvero bene?
Per le indagini internazionali sui livelli di apprendimento, gli studenti italiani sono tra quelli che dichiarano un elevato carico di lavoro in forma di compiti a casa. Secondo IEA Trends in International Mathematics and Science Study del 2015, i ragazzi di terza media (grado 8) che dichiarano di dedicare fino a 45 minuti la settimana ai compiti a casa di matematica hanno 486 come punteggio nei test (significativamente sotto la media internazionale di 500); chi dichiara un impegno domestico tra i 45 minuti e le 3 ore la settimana sale a 502; scende invece di nuovo a 488 chi dice di studiare la matematica oltre 3 ore alla settimana. Dunque, i compiti a casa fanno bene agli apprendimenti, ma per evitare effetti indesiderati è meglio non eccedere.
C’è anche un altro effetto collaterale indesiderato. I compiti a casa sono uno dei canali attraverso i quali si allargano i divari di apprendimento tra studenti con diverso retroterra socio-culturale. Sempre Timss ci dice che, rispetto a uno studente con genitori istruiti fino alla licenza media, un figlio di diplomati ha una probabilità del 15 per cento più alta di dichiarare un maggior tempo speso a fare i compiti a casa (+23 per cento per un figlio di laureati). Peraltro, anche senza tempo disponibile, i genitori più istruiti (spesso con condizioni di reddito più favorevoli) possono ricorrere con più agio a “lezioni private” per aiutare i figli nello studio a casa.
Risultati analoghi si registrano anche alle superiori (si veda l’indagine Ocse Pisa).
Si può farne a meno?
Le evidenze indicano anche alcuni possibili rimedi alla caduta degli apprendimenti dovuta alle pause scolastiche e agli effetti deleteri associati a un eccessivo carico di compiti a casa.
A livello istituzionale, si potrebbe rimodulare il calendario scolastico così da non avere pause lunghe e concentrate, ma più brevi e spalmate sull’intero anno. È una soluzione già adottata in molti paesi; in Italia però richiederebbe cambiamenti non banali anche in termini di edilizia scolastica e spazi educativi.
Un altro rimedio ha a che fare con l’estensione del tempo scuola alle ore pomeridiane non per svolgere attività ordinaria, ma per individualizzare l’offerta formativa con attività integrative e di recupero per chi è in ritardo e attività di potenziamento e approfondimento per gli altri. In alcune scuole italiane è già una buona pratica; se fosse istituzionalizzata potrebbe dare un senso all’organico dell’autonomia che oggi “un senso non ce l’ha”. Non a caso nelle scuole primarie, dove il tempo scuola è più esteso e l’impianto pedagogico è diverso, il ricorso ad attività di studio extra-scolastiche è più limitato rispetto alle medie (fonte: Timss 2015 grado 4 rispetto a grado 8). Alle medie, dove i saperi si frammentano e si aprono i gap di apprendimento che determineranno le scelte future e i destini educativi, il tempo pieno/lungo/prolungato è una chimera e comincia a crescere il carico dei compiti a casa, con tutte le conseguenze del caso.
Dunque, le soluzioni esistono e sono nelle mani dei responsabili delle politiche educative; ma non sono temi che si possano affrontare con una circolare ministeriale.
Gianfranco De Simone
14.12.2018
www.lavoce.info
Le ragioni degli insegnanti
Con le vacanze di Natale torna la polemica sui compiti a casa. Vissuti solitamente come una iattura dagli studenti e come motivo di stress dai genitori, a volte catturano anche l’attenzione dei responsabili delle politiche educative. L’ultimo è il ministro Bussetti che ha annunciato una circolare in merito, ma prima di lui già il ministro Profumo si era detto contrario a eccessivi carichi di lavoro a casa per gli studenti. I docenti, però, continuano in larga parte a fare affidamento sui compiti a casa, confidando che gli studenti svolgano una quota di studio in autonomia.
Una delle ragioni è che, nella ricerca del metodo di studio per sé più congeniale, ogni studente deve imparare ad alternare il lavoro condiviso svolto in classe con momenti di apprendimento autonomo. I compiti a casa favoriscono questa seconda pratica. Da tempo, la ricerca ha poi messo in evidenza come le interruzioni (più o meno lunghe) delle attività scolastiche comportino un decadimento dei livelli di apprendimento (learning decay/skills deterioration). Alcuni studi quantificano quello dopo le vacanze estive in media nell’equivalente di un mese di scuola. L’arretramento non colpisce allo stesso modo tutti gli studenti e ogni tipo di competenza: cresce al crescere del grado scolastico (perché nozioni, saperi e metodi diventano via via più complessi); è più accentuato in matematica; colpisce maggiormente chi ha profili di competenza più fragili (perché è più facile preservare il proprio livello di competenza quando è già elevato) e chi ha un retroterra familiare meno avvantaggiato (perché solitamente meno esposto a stimoli educativi in ambiente domestico).
È anche per scongiurare questi rischi che i docenti fanno ricorso ai compiti a casa.
Ma i compiti a casa fanno davvero bene?
Per le indagini internazionali sui livelli di apprendimento, gli studenti italiani sono tra quelli che dichiarano un elevato carico di lavoro in forma di compiti a casa. Secondo IEA Trends in International Mathematics and Science Study del 2015, i ragazzi di terza media (grado 8) che dichiarano di dedicare fino a 45 minuti la settimana ai compiti a casa di matematica hanno 486 come punteggio nei test (significativamente sotto la media internazionale di 500); chi dichiara un impegno domestico tra i 45 minuti e le 3 ore la settimana sale a 502; scende invece di nuovo a 488 chi dice di studiare la matematica oltre 3 ore alla settimana. Dunque, i compiti a casa fanno bene agli apprendimenti, ma per evitare effetti indesiderati è meglio non eccedere.
C’è anche un altro effetto collaterale indesiderato. I compiti a casa sono uno dei canali attraverso i quali si allargano i divari di apprendimento tra studenti con diverso retroterra socio-culturale. Sempre Timss ci dice che, rispetto a uno studente con genitori istruiti fino alla licenza media, un figlio di diplomati ha una probabilità del 15 per cento più alta di dichiarare un maggior tempo speso a fare i compiti a casa (+23 per cento per un figlio di laureati). Peraltro, anche senza tempo disponibile, i genitori più istruiti (spesso con condizioni di reddito più favorevoli) possono ricorrere con più agio a “lezioni private” per aiutare i figli nello studio a casa.
Risultati analoghi si registrano anche alle superiori (si veda l’indagine Ocse Pisa).
Si può farne a meno?
Le evidenze indicano anche alcuni possibili rimedi alla caduta degli apprendimenti dovuta alle pause scolastiche e agli effetti deleteri associati a un eccessivo carico di compiti a casa.
A livello istituzionale, si potrebbe rimodulare il calendario scolastico così da non avere pause lunghe e concentrate, ma più brevi e spalmate sull’intero anno. È una soluzione già adottata in molti paesi; in Italia però richiederebbe cambiamenti non banali anche in termini di edilizia scolastica e spazi educativi.
Un altro rimedio ha a che fare con l’estensione del tempo scuola alle ore pomeridiane non per svolgere attività ordinaria, ma per individualizzare l’offerta formativa con attività integrative e di recupero per chi è in ritardo e attività di potenziamento e approfondimento per gli altri. In alcune scuole italiane è già una buona pratica; se fosse istituzionalizzata potrebbe dare un senso all’organico dell’autonomia che oggi “un senso non ce l’ha”. Non a caso nelle scuole primarie, dove il tempo scuola è più esteso e l’impianto pedagogico è diverso, il ricorso ad attività di studio extra-scolastiche è più limitato rispetto alle medie (fonte: Timss 2015 grado 4 rispetto a grado 8). Alle medie, dove i saperi si frammentano e si aprono i gap di apprendimento che determineranno le scelte future e i destini educativi, il tempo pieno/lungo/prolungato è una chimera e comincia a crescere il carico dei compiti a casa, con tutte le conseguenze del caso.
Dunque, le soluzioni esistono e sono nelle mani dei responsabili delle politiche educative; ma non sono temi che si possano affrontare con una circolare ministeriale.
Gianfranco De Simone
14.12.2018
www.lavoce.info
martedì 18 dicembre 2018
Quel senso di ingiustizia che anima la protesta dei gilet gialli
La tassa sui carburanti che ha innescato la protesta dei gilet gialli è solo la punta dell’iceberg di un diffuso senso di iniquità. Ma è desolante che alle richieste di chi si sente escluso e lasciato indietro si risponda solo con ricette populiste.
Dall’economia due verità sgradevoli
Le proteste dei gilet gialli sono state uno degli argomenti di cui si è più discusso nelle ultime settimane, fino a indurre il presidente francese Macron a presentarsi in televisione per dire che ha capito le ragioni dei manifestanti e che adotterà misure per venire incontro alle loro esigenze. L’innesco delle proteste è stato un aumento delle tasse sui carburanti, che penalizzano specialmente chi abita nelle periferie, e quindi usa l’auto per andare al lavoro, e i proprietari di auto più inquinanti. Proprio in questa settimana c’è stata la Nobel lecture di William Nordhaus, che l’Accademia di Stoccolma ha premiato per i suoi studi sul cambiamento climatico. Val la pena di riportare una citazione: “L’economia mostra una verità sconveniente sulle politiche sul cambiamento climatico: per essere efficaci esse devono aumentare il prezzo della CO2 e, così facendo, correggere l’esternalità del mercato. Se si vuole essere efficaci, il prezzo deve aumentare”.
Gli eventi francesi suggeriscono però anche un’altra verità sgradevole: l’aumento di prezzo dei carburanti rischia di penalizzare soprattutto i più poveri. Un obiettivo come quello di limitare i danni del cambiamento climatico rischia di essere percepito come un ulteriore fattore che genera iniquità. Pensare al futuro del pianeta è una preoccupazione riservata solo ai ricchi?
Il contrasto irrisolto tra efficienza ed equità
Negli scorsi giorni un altro premio Nobel, Jean Tirole, ha scritto un articolo sul Journal du Dimanche in cui elenca alcune proposte volte ad attenuare l’impatto della tassa sui carburanti sui meno abbienti: per esempio, ridurre il carico fiscale togliendo alcune delle imposte più distorsive e meno efficaci, come gli oneri fiscali che gravano su imprese e lavoratori, dare un bonus energia ai più bisognosi per far fronte all’aumento dei carburanti, facilitare l’accesso al credito per chi volesse dotarsi di tecnologie meno inquinanti, usare il gettito della tassa sui carburanti per opere di adattamento e di attenuazione dell’impatto del cambiamento climatico.
Ma il problema del diffuso senso di mancanza di equità del sistema economico, nota Tirole, è più ampio di quello legato alla tassa sui carburanti. Infatti la protesta dei gilet gialli, partita da lì, si è spostata su un piano più ambizioso, quello del recupero del potere di acquisto, anche attraverso una netta riduzione della pressione fiscale.
Ma come si può ridurre la pressione fiscale sui più poveri senza privare i cittadini di servizi essenziali? Un primo elemento è quello di fare pagare di più i ricchi. La decisione di Emmanuel Macron di riformare alleggerendo una forma di tassazione patrimoniale ha esacerbato il senso di iniquità dei cittadini francesi. Tuttavia, in passato quell’imposta ha garantito un gettito limitato. Per dare maggiori entrate dovrebbe probabilmente colpire una platea più ampia, con le ovvie conseguenze in termini di consenso. Inoltre, afferma Tirole, occorre spendere meglio, tagliando i programmi di spesa meno efficaci. “Vaste programme”, verrebbe da dire sulla base dell’esperienza italiana della spending review. Infine, e forse è questo il punto più importante, occorre ricordare a tutti che l’economia non è un gioco a somma zero. Le riforme per aumentare la produttività e quindi la crescita sono essenziali. Ma anche in questo caso, non c’è da essere ottimisti. Troppe volte i governi hanno parlato negli anni passati di riforme strutturali senza che poi i cittadini ne abbiano visto gli effetti e oggi molti di loro provano fastidio solo a sentirle nominare.
Il contrasto tra efficienza ed equità non è certo un tema nuovo in economia. Ma è desolante osservare che alle richieste di chi si sente escluso e lasciato indietro oggi siano offerte solo le ricette populiste, come il protezionismo o l’assistenzialismo. La combinazione di fallimento dei mercati e della politica rischia di avere conseguenze difficilmente prevedibili e non certo in senso positivo.
Fausto Pannunzi
14.12.18
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Dall’economia due verità sgradevoli
Le proteste dei gilet gialli sono state uno degli argomenti di cui si è più discusso nelle ultime settimane, fino a indurre il presidente francese Macron a presentarsi in televisione per dire che ha capito le ragioni dei manifestanti e che adotterà misure per venire incontro alle loro esigenze. L’innesco delle proteste è stato un aumento delle tasse sui carburanti, che penalizzano specialmente chi abita nelle periferie, e quindi usa l’auto per andare al lavoro, e i proprietari di auto più inquinanti. Proprio in questa settimana c’è stata la Nobel lecture di William Nordhaus, che l’Accademia di Stoccolma ha premiato per i suoi studi sul cambiamento climatico. Val la pena di riportare una citazione: “L’economia mostra una verità sconveniente sulle politiche sul cambiamento climatico: per essere efficaci esse devono aumentare il prezzo della CO2 e, così facendo, correggere l’esternalità del mercato. Se si vuole essere efficaci, il prezzo deve aumentare”.
Gli eventi francesi suggeriscono però anche un’altra verità sgradevole: l’aumento di prezzo dei carburanti rischia di penalizzare soprattutto i più poveri. Un obiettivo come quello di limitare i danni del cambiamento climatico rischia di essere percepito come un ulteriore fattore che genera iniquità. Pensare al futuro del pianeta è una preoccupazione riservata solo ai ricchi?
Il contrasto irrisolto tra efficienza ed equità
Negli scorsi giorni un altro premio Nobel, Jean Tirole, ha scritto un articolo sul Journal du Dimanche in cui elenca alcune proposte volte ad attenuare l’impatto della tassa sui carburanti sui meno abbienti: per esempio, ridurre il carico fiscale togliendo alcune delle imposte più distorsive e meno efficaci, come gli oneri fiscali che gravano su imprese e lavoratori, dare un bonus energia ai più bisognosi per far fronte all’aumento dei carburanti, facilitare l’accesso al credito per chi volesse dotarsi di tecnologie meno inquinanti, usare il gettito della tassa sui carburanti per opere di adattamento e di attenuazione dell’impatto del cambiamento climatico.
Ma il problema del diffuso senso di mancanza di equità del sistema economico, nota Tirole, è più ampio di quello legato alla tassa sui carburanti. Infatti la protesta dei gilet gialli, partita da lì, si è spostata su un piano più ambizioso, quello del recupero del potere di acquisto, anche attraverso una netta riduzione della pressione fiscale.
Ma come si può ridurre la pressione fiscale sui più poveri senza privare i cittadini di servizi essenziali? Un primo elemento è quello di fare pagare di più i ricchi. La decisione di Emmanuel Macron di riformare alleggerendo una forma di tassazione patrimoniale ha esacerbato il senso di iniquità dei cittadini francesi. Tuttavia, in passato quell’imposta ha garantito un gettito limitato. Per dare maggiori entrate dovrebbe probabilmente colpire una platea più ampia, con le ovvie conseguenze in termini di consenso. Inoltre, afferma Tirole, occorre spendere meglio, tagliando i programmi di spesa meno efficaci. “Vaste programme”, verrebbe da dire sulla base dell’esperienza italiana della spending review. Infine, e forse è questo il punto più importante, occorre ricordare a tutti che l’economia non è un gioco a somma zero. Le riforme per aumentare la produttività e quindi la crescita sono essenziali. Ma anche in questo caso, non c’è da essere ottimisti. Troppe volte i governi hanno parlato negli anni passati di riforme strutturali senza che poi i cittadini ne abbiano visto gli effetti e oggi molti di loro provano fastidio solo a sentirle nominare.
Il contrasto tra efficienza ed equità non è certo un tema nuovo in economia. Ma è desolante osservare che alle richieste di chi si sente escluso e lasciato indietro oggi siano offerte solo le ricette populiste, come il protezionismo o l’assistenzialismo. La combinazione di fallimento dei mercati e della politica rischia di avere conseguenze difficilmente prevedibili e non certo in senso positivo.
Fausto Pannunzi
14.12.18
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