giovedì 31 gennaio 2019

L'Italia delle decisioni opache

L’ordinamento europeo si orienta verso una sempre maggiore trasparenza delle istituzioni. In Italia restano invece zone d’ombra, dall’attività delle commissioni parlamentari alla regolamentazione delle lobby e alla valutazione delle politiche pubbliche.
Anche i triloghi diventano pubblici
Per garantire ai cittadini “una migliore conoscenza dell’operato dei pubblici poteri” e, quindi, una più stretta partecipazione ai processi decisionali, l’ordinamento europeo si è progressivamente evoluto verso una maggiore trasparenza delle istituzioni. A ciò hanno contribuito nel tempo anche alcune pronunce dei giudici. L’ultima è la sentenza del tribunale dell’Unione europea che, il 22 marzo scorso, ha consentito l’accesso integrale alle tabelle a quattro colonne redatte nell’ambito dei cosiddetti triloghi, negoziati informali fra i due co-legislatori (Parlamento e Consiglio), finalizzati a raggiungere un’intesa per la successiva adozione formale degli atti legislativi. I negoziati non vengono contemplati dai trattati dell’Unione europea, ma sono diventati comuni nella pratica poiché la soluzione “ufficiale” prevista in caso di divergenza tra le due istituzioni – la“conciliazione”, cui può ricorrersi solo nella fase conclusiva dei lavori- si è dimostrata complessa e poco efficiente. I triloghi – possibili, invece, in ogni fase – hanno reso più spedita la co-decisione, che costituisce la procedura legislativa ordinaria dopo il trattato di Lisbona. Tuttavia, le trattative dei triloghi presentano un aspetto critico in termini di trasparenza: si svolgono a porte chiuse.
Il citato documento a quattro colonne “è l’unico atto che consente sia di tenere traccia di quanto effettivamente accade durante le riunioni, che di conoscere l’evoluzione delle posizioni espresse dalle delegazioni partecipanti”: ma mentre le prime due colonne del documento – proposta della Commissione e posizione del Parlamento – sono pubbliche, le altre due – posizione del Consiglio e proposta di compromesso – sono normalmente segretate. A questo riguardo, in seguito a un’inchiesta sui triloghi svolta nel 2015, il difensore civico europeo ha  richiamato a una maggiore trasparenza. E la sentenza di marzo del tribunale dell’UE, sancendo che non esiste una “presunzione generale di non divulgazione” relativamente alle procedure legislative dell’Unione, ha dato ampia applicazione ai principi di pubblicità e trasparenza delle stesse. “L’esercizio da parte dei cittadini dei loro diritti democratici presuppone la possibilità di seguire in dettaglio il processo decisionale all’interno delle istituzioni che partecipano alle procedure legislative e di avere accesso a tutte le informazioni pertinenti” (punto 98). Del resto, in ogni democrazia rappresentativa – UE o ordinamenti nazionali – “la rappresentanza può aver luogo soltanto nella sfera della pubblicità”, non “in segreto e a quattr’occhi”.
La situazione in Italia
Ma qual è il grado di la trasparenza del processo decisionale dei legislatori italiani?
In Italia vige il principio della pubblicità delle sedute delle Camere (articolo 64 Costituzione), per garantire la conoscibilità alle scelte operate, e la tecnologia ha consentito una sempre maggiore informazione sui lavori dell’assemblea. Eppure, restano margini di opacità nell’azione dei decisori. Innanzitutto, vi sono zone d’ombra sul funzionamento delle commissioni parlamentari permanenti, “cuore del processo legislativo(…). È in questi organi che si svolge la maggior parte del lavoro sugli emendamenti, in cui si cercano convergenze politiche e in cui il dibattito entra realmente nel merito delle questioni”. Solo per le sedute delle commissioni in sede deliberante o redigente vi è l’obbligo – non sempre rispettato– del resoconto stenografico (articolo 65 regolamento Camera; articoli 60 e 33 regolamento Senato) e può essere richiesta la pubblicità dei lavori.Invece, se le commissioni si riuniscono in sede referente o consultiva vengono stilati solo “resoconti sommari con molte poche informazioni. La poca accountability e trasparenza è evidente anche nelle votazioni. Il voto elettronico non è la regola, ed è quindi impossibile ricostruire come i membri delle commissioni votino sui singoli emendamenti, articoli, provvedimenti”.
In secondo luogo, in Italia non esiste una disciplina delle lobby e, pertanto, a differenza di quanto accade in UE, vi è totale opacità sulle “pressioni” che influenzano il processo legislativo.
Inoltre, vengono poco e male usati strumenti per la trasparenza della regolamentazione prodotta dal governo: l’analisi di impatto, cioè la valutazione preventiva di costi e benefici delle ipotesi di intervento normativo, mediante comparazione di opzioni alternative; e la verifica di impatto, vale a dire il successivo esame degli effetti prodotti dall’opzione prescelta.
Infine, manca un compiuto “ciclo di valutazione” delle politiche pubbliche, non solo per i profili regolatori, ma soprattutto per quelli inerenti alla definizione del problema da risolvere, agli studi di fattibilità delle diverse ipotesi di azione, al controllo in itineree alla verifica dei risultati: la trasparenza di tale “ciclo” consentirebbe un’effettiva conoscenza dell’operato dei pubblici poteri.
I margini di opacità sui processi decisionali restano, dunque, rilevanti. L’auspicio è che i recenti sviluppi in sede UE verso una maggiore trasparenza possano orientare nel medesimo senso anche l’ambito italiano.
*Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono l’istituzione per cui lavora.

Vitalba Azzolini
07.08.18
www.lavoce.info

domenica 13 gennaio 2019

Autorità indipendenti, nell’interesse dei cittadini*

Le dimissioni di Mario Nava dalla Consob hanno alimentato il “sospetto inquietante” che si sia trattato solo di uno scontro di potere. Ma le istituzioni indipendenti vanno sottratte a queste logiche Perché hanno un ruolo essenziale nelle economie moderne.

Le dimissioni di Mario Nava
Sulle dimissioni di Mario Nava da presidente della Consob sarebbe opportuno qualche chiarimento.
Pur non avendo avuto occasione per conoscerlo personalmente, non ho dubbi sull’elevatissimo livello professionale di Nava. Ho pensato, e continuo a pensare, che fosse un presidente del tutto idoneo alla carica. Inoltre, le sue dichiarazioni programmatiche dei mesi scorsi, richiamate nel messaggio delle dimissioni, indicano una linea di conduzione della Consob che mi pare molto opportuna per il necessario e urgente rilancio di questa istituzione fondamentale nel sistema finanziario. Le sue dimissioni sono una perdita per l’Italia.
Non mi convince invece, e mi preoccupa, la loro motivazione, cioè il “totale non gradimento politico” che “limita l’azione della Consob in quanto la isola e non permette il raggiungimento degli obiettivi”.
L’espressione è grave, dato che la convivenza di un’autorità indipendente con una maggioranza politica diversa da quella che l’ha nominata è normale nelle democrazie e si è più volte verificata anche in Italia, senza essere stata mai causa di paralisi operativa né di strappi alle scadenze istituzionali.
Che il governo in carica intenda disconoscere l’indipendenza delle autorità indipendenti è un “sospetto inquietante”.
Va in questa direzione l’infelice dichiarazione del ministro Di Maio, pronunciata subito dopo le dimissioni di Nava, che confonde la Commissione europea con la “finanza internazionale” e considera questa e anche quella come antitetiche all’interesse dello Stato. Ma il ministro ha collezionato in pochi mesi così tante dichiarazioni poi smentite che è consigliabile molta cautela prima di considerare un’esternazione a caldo su un social network come un atto di governo.
I gruppi parlamentari dei partiti di maggioranza avevano valutato che la situazione contrattuale del presidente Nava richiedesse le sue dimissioni. In effetti, l’assenza di incompatibilità tra una nomina settennale al vertice di un’autorità indipendente nazionale e la permanenza di un rapporto di lavoro dipendente con un’istituzione europea, pur mitigato da un comando triennale (ma non da un’aspettativa settennale), è opinabile.
La questione poteva essere approfondita sul piano del diritto e su quello della correttezza istituzionale con cautela, che doveva essere tanto maggiore essendovi un ovvio interesse dell’attuale maggioranza a cogliere l’occasione per liberare un posto importante.
Il ruolo delle Autorità
Invece, le dimissioni con la loro motivazione, e poi i commenti e le cronache dei retroscena, tendono proprio a confermare quel “sospetto inquietante” e addirittura a considerare ovvio che sia in atto solo uno scontro di potere, in cui la questione dell’eventuale incompatibilità sarebbe stata unicamente un pretesto.
Sarebbe gravissimo se il mondo della politica e quello dei mezzi d’informazione si rassegnassero a questa logica. Le istituzioni dette “indipendenti” sono essenziali per governare i mercati. La loro indipendenza è limitata entro una missione che è stata fissata dagli organismi elettivi ed esse devono perseguirla seguendo regole e procedure che sono state stabilite in un quadro di consenso istituzionale. Proprio per questo esse operano con un orizzonte temporale slegato dalle vicende politiche e devono essere sottratte alle invasioni di campo estemporanee.
Su questo sarebbe bene che tutte le forze politiche fossero d’accordo, altrimenti facciamo un passo non solo verso l’uscita dall’euro e dall’Unione europea, ma dall’ambito dei paesi che cercano seriamente di governare un’economia moderna nell’interesse dei cittadini.
* Questo articolo è pubblicato anche sulla pagina Linkedin di Pippo Ranci.

Pippo Ranci

21.09.18

www.lavoce.info

domenica 6 gennaio 2019

Armi in casa: se l’Italia segue il cattivo esempio degli Usa

Negli Stati Uniti è facile per chiunque acquistare un’arma da fuoco. L’influenza politica della Nra blocca qualsiasi iniziativa di regolamentazione più rigida. In Italia la lobby delle armi ai privati agisce da pochi anni. Ma ha già ottenuto successi.

La regolamentazione della detenzione di armi
Un’altra, l’ennesima, strage in America: undici morti in una sinagoga uccisi da uno squilibrato con un fucile semi-automatico. Il messaggio del presidente Trump è stato immediato: ci vogliono più guardie armate e la pena di morte deve essere applicata di più. Nessun commento, invece, sulla regolamentazione delle armi da fuoco.
Il silenzio di Donald Trump sul tema è assordante, perché negli Stati Uniti la regolamentazione si limita a un controllo dei precedenti (background check) per impedire ai negozi di vendere armi ai criminali e agli psicolabili. Ma siccome il 40 per cento delle vendite avviene tra privati, è facile (e legale) ottenere un’arma anche per criminali e psicolabili.
In Italia, stiamo andando nella stessa direzione?
Il decreto legge 104/2018 riduce gli ostacoli alla detenzione di armi in casa: d’ora in avanti, si dovrà soltanto presentare un certificato Asl che attesti l’assenza di malattie mentali. Il decreto è la risposta politica a una promessa elettorale di Matteo Salvini: tutelare l’esercizio della legittima difesa. Il punto ancora più interessante è che durante la campagna elettorale Salvini si è impegnato a consultarsi con la lobby italiana delle armi, rappresentata dal Comitato Direttiva 477 (Associazione per la difesa dei diritti dei detentori legali di armi). Il che ci porta al tema dell’attività di lobbying.
Come agiscono le lobby al tempo dei social
L’associazione Comitato Direttiva 477 promuove gli interessi dei detentori legali di armi. Il sito web non è molto trasparente riguardo alle fonti di finanziamento, però rivela una “collaborazione” con varie associazioni di armaioli e di commercianti del settore. Ed è membro di Firearms United, l’associazione a livello europeo. La missione di Firearms United è esplicita: bloccare regolamentazioni europee tese a ridurre l’accesso alle armi da fuoco.
Negli Stati Uniti, i detentori di armi da fuoco sono invece rappresentati dalla National Rifle Association. L’associazione, fondata nel 1871, si definisce “la più antica organizzazione dei diritti civili degli Usa”. È una delle lobby americane più influenti a livello elettorale, più di altre industrie che pure hanno giri d’affari molto più consistenti.
Il potere politico della Nra non deriva dal denaro, ma dalla capacità di mobilitare e coordinare attivisti a livello locale contro qualsiasi candidato che si schieri a favore di una maggiore regolamentazione delle armi. Il suo potere è quindi limitato a circoscrizioni rurali, dove ci sono tanti attivisti (cacciatori) e l’arma da fuoco è vista come una protezione e anche come uno stile di vita (andare a caccia con i figli). Ma siccome negli Usa le circoscrizioni rurali sono tante, la lobby è una potenza a livello nazionale. Dunque, c’è un filo diretto fra la potenza politica della Nra e la regolamentazione (debole) delle armi da fuoco.
In Italia, la lobby dei detentori di armi non è ancora potente come la Nra. Però, se si considera che è stata fondata solo tre anni fa, si può dire che sta avendo un notevole successo. Come negli Usa, anche nel nostro paese la lobby è politicamente influente perché è capace di coordinare consenso e portare voti. Si tratta di un fenomeno nuovo e diverso dalle lobby “tradizionali” dei settori industriali. Un tempo, poche lobby erano in grado di organizzare direttamente il consenso a causa della difficoltà di raggiungere il votante. Il consenso veniva coordinato dai mass media e attraverso i partiti politici. Oggi invece social media, email, messaging facilitano un contatto diretto con i cittadini e quindi i gruppi di pressione che vengono “dal basso”, cioè dai consumatori invece che dai produttori, hanno una influenza sempre crescente. Non a caso, Comitato Direttiva 477 rappresenta i detentori e non i produttori di armi.
Se i nuovi media favoriscono il nuovo tipo di lobbying “dei consumatori” rispetto a quello “dei produttori”, cosa possiamo aspettarci riguardo alla regolamentazione delle armi da fuoco? Se una lobby raccoglie istanze molto sentite da alcuni consumatori, sarà più capace di mobilitarli e quindi più potente rispetto a un gruppo di consumatori magari molto più grande, ma meno motivato. Nel caso delle armi, è probabile che chi le detiene o le vuole detenere (cacciatori, appassionati) sia molto più motivato della persona media che alle armi pensa poco e magari è contrario al loro uso. E dunque sarà più facile per un lobbista operare a favore del gruppo di votanti che vuole le armi e convincere i politici che questo gruppo di cittadini voterà a seconda delle scelte sulla regolamentazione delle armi.
Se l’analisi è corretta, allora possiamo aspettarci che la giovane lobby dei possessori di armi in futuro acquisterà maggiore potere politico anche nel nostro paese. E quindi si può prevedere che sulla regolamentazione delle armi da fuoco, l’Italia si muoverà nella direzione degli Stati Uniti.

Nicola Persico

30.10.18
www.lavoce.info